Nuovi Confini
Nell’estate del 1960, avevo 8 anni e giocavo nella tesa cercando di non
sprofondare nella palude di noia di quei lunghi pomeriggi estivi in paese.
I giochi di noi bimbi allora, quando non erano improntati al calcio a
sfinimento totale in cortile, erano perlopiù rievocativi degli eroi che
andavano per la maggiore sul grande schermo, da Tarzan, Maciste, Zorro
o quant’altro passasse sul grande schermo del cinema parrocchiale.
Il giorno prima, il babbo , gli zii e il nonno avevano riempito la tesa con
le balle di fieno provenienti dai campi, e quella era la settimana di Tarzan
al cinema della parrocchia…era inevitabile no?
Non avevo a disposizione né elefanti né scimmie per la ricostruzione
ambientale , ma potevo contare su travi , fieno e corde per simulare la
giungla e i voli di Tarzan da una liana all’altra.
Non sono mai stato uno scavezzacollo e perlopiù ero abbastanza prudente
nell’affrontare i tanti giochi improvvisati anche se le tante sbucciature
alle ginocchia, bozze e lividi in fronte sembravano testimoniare il
contrario: erano semplici tributi dovuti alla fantasia esplorativa di nuove
frontiere possibili, e così fu anche in quel pomeriggio in cui la noia
sembrava mischiarsi all’afa.
Avevo preparato il set con le dovute misure precauzionali.
Grazie a una scalampia rimasta nella tesa dalle potature della stagione
precedente, ero riuscito ad allacciare tre corde su tre travi , in realtà il
cosiddetto cordame era costituito da una corda vera e da due da
imballaggio .
Però come ho detto ero abbastanza prudente e avevo testato che il
cordame più sottile reggesse il mio peso e inoltre come surplus
lungimirante di precauzione antinfortunistica avevo anche sparso alcune
manciate di fieno a terra perché ..non si sa mai!
Il primo tentativo di volo fu premiato da un successo assoluto, avrei
potuto interpretare il ruolo di figlio di Tarzan, e così anche i successivi
andarono a buon fine, mi stavo impratichendo su traiettorie di volo senza
tener conto però che la corda di imballaggio nello sfregamento con il
trave era arrivata ormai al limite e nel frattempo non mi erano spuntate le
ali quindi fu inevitabile lo strappo della corda e la caduta nel vuoto nel
volo successivo.
Nessuna liana di salvataggio e solo quella manciata di fieno che avevo
precauzionalmente steso a terra in precedenza, ma che in realtà sarebbe
stata a malapena sufficiente per proteggere le uova nel cestino.
Fu così che, in un attimo, l’urlo di Tarzan si trasformò nell’urlo di un
bimbo che si rompeva un braccio.
Luglio con gesso fino alla spalla, Agosto con gesso fino al gomito e
quella fu la prima volta che mi resi conto di un confine invisibile che
separa il prima dal dopo, un confine disegnato dal caso che separa, come
una riga di gesso, una parte dall’altra e che può renderti prigioniero
all’interno di sbarre che non si vedono, ma ci sono, il confine tra quel che
vorremmo fare e quel che si può fare.
Avrei voluto continuare a giocare a calcio in cortile o sul campo, avrei
voluto correre in bicicletta su e giù dalla collinetta del paese da dove
andavamo a vedere di nascosto e a gratis i film all’aperto del Cinema
Italia, avrei voluto continuare a fare tutte quelle cose che fa normalmente
un bimbo di 8 anni , ma non potevo nemmeno tirare con la fionda ai
corvacci nei campi…potevo solo fare pascolare i miei sogni sulle praterie
dell’impossibile dove non esistevano confini, regole, sbarre e dove potevi
percorrere i sentieri della fantasia e della creatività; fu un estate in cui
invece di andare a Riccione andai in giro per i mari dei Sargassi con
Salgari e vissi avventure fantastiche coi moschettieri di Dumas.
Un passato lontano che oggi sembra ieri e oggi, come ieri , ridisegna un
confine spostando in un attimo le priorità e le aspettative.
Oggi come allora, quando il breve tempo di un volo interruppe
l’aspettativa di un’estate di vacanze spensierate, ci ritroviamo tutti a
cadere pesantemente a terra richiamati non dalla forza di gravità, ma
dalla forza di un destino che ha spostato improvvisamente il confine
finora conosciuto, che ci toglie in un attimo usi e costumi consolidati
negli anni e ci restituisce ad una prospettiva di vita confinata dietro a
quelle sbarre che noi stessi avevamo costruito senza saperlo.
Per giorni, per settimane, abbiamo fatto finta di non vedere, abbiamo
cercato di ingannare noi stessi con la leggerezza dell’ironia, ci siamo
nascosti dietro al sarcasmo, abbiamo cercato di minimizzare , ci siamo
scatenati sui social e su what’s up in lunghe, compulsive estenuanti chat
che sembravano delle maratone di resistenza di fronte all’ineluttabilità
del destino, ma alla fine abbiamo dovuto prendere coscienza di un
confine tracciato dal destino e a nulla valgono tutti i ragionamenti che
assumono solo lo spessore di inutili vaniloqui.
Il destino, volenti o nolenti ci ha ingessati in una nuova prospettiva.
La pandemia del coronavirus non ha creato solo vittime e caduti sul
campo, ha soprattutto abbattuto e demolito un modello di vita, ci ha
costretti a ripensare stile e modalità, ha imposto un ripensamento e una
riflessione sulle priorità etiche, sulla frenesia di una vita che ingoia tutto
nella propria continua accelerazione centrifugando il tempo di tutti.
Di fronte allo sconvolgimento della nostra quotidianità e all’indubbia
crisi economica generata, abbiamo però potuto cogliere anche le
opportunità offerte dai nuovi confini: ad esempio ci siamo resi conto che
si può vivere benissimo anche senza l’assillo di una Lambruscolonga o di
una Bonissima o di un Festival del cotechino o dello Stuzzicagente ,
senza l’assillo di mercati , fiere e mercatini più o meno straordinari, una
crisi che ci regala l’opportunità di ripensare a modelli che possono anche
essere diversi da quelli sui quali abbiamo impostato la nostra vita negli
ultimi anni , un’economia basata sul rito dell’Happy Hour o sulla
frequentazione di una spasmodica Movida notturna fuori contesto.
Abbiamo potuto constatare che i nostri figli possono anche vivere senza
sbattersi ogni sera in pub e discoteche, o senza andare a fare l’alba sui
lidi romagnoli.
Abbiamo visto che anche l’incrollabile mito dello sport e del calcio in
particolare può essere ridimensionato e ricondotto nella sua accezione più
nobile , quella formativa di quei valori che ci hanno fatto innamorare da
bambini e che sono stati da tempo ingoiati e metabolizzati da
sponsorizzazione e interessi mercantili che invece di essere un appoggio
alla diffusione dello sport sono stati solo un veicolo commerciale per
interessi che hanno ben poco a spartire con i valori sportivi. Per la prima
volta dal dopoguerra si sono fermati tutti i campionati e per poterli
fermare non è stato sufficiente il timore della pandemia, c’è voluto un
decreto ingiuntivo per fermare il treno degli interessi che volevano
continuare a spingere il carrozzone, così come c’è voluta una spintarella
anche per fermare tutte le altre attività sportive che sono state per
settimane in bilico fra il buon senso e l’appiattimento allo slogan
“Modena non si ferma”, il solito doppio binario dell’indecisione e della
deresponsabilizzazione.
Alla fine è prevalso il buon senso, l’attenzione e l’ascolto di coloro che in
questa crisi hanno incarnato le competenze e finalmente ci siamo fermati
tutti.
Verrà il tempo in cui ci toglieremo il gesso e quando potremo riprendere
la nostra vita fuori dalla gabbia creata dalla crisi pandemica, cerchiamo di
capire come la vogliamo vivere…ora abbiamo l’occasione unica di
ripensarla!